Ritrovarsi in gruppo a praticare in un seminario intensivo di Taiji

Ritrovarsi in gruppo a praticare in un seminario intensivo di Taiji

Ogni anno invito in Italia un istruttore che segue l’insegnamento della scuola di Patrick Kelly da molto tempo. 30 anni di pratica seria con il Maestro portano al gruppo qualcosa di profondo e diverso.

È una esperienza differente a seconda della persona che viene a insegnare, ognuno ha le sue forze e le sue debolezze, ma quello che mi spinge a scegliere una persona piuttosto di un’altra è difficile spiegarlo. Niente a che vedere con la simpatia personale. È più un riconoscere che attraverso questa persona passa qualcosa di sottile e trasformante e se, malgrado questa importante condizione, riesce a rimanere semplice, accogliente e sinceramente umile, allora sento che l’insegnamento non viene ridotto dalla parte egoica che purtroppo in genere si sviluppa in maniera enorme nei praticanti di arti marziali, e che la purezza dell’acqua non viene contaminata dal recipiente che la riceve per poi distribuirla.

Ho chiesto agli allievi che hanno partecipato all’intensivo estivo di Taiji e meditazione del metodo Patrick Kelly di raccontare la loro esperienza.

Quando si partecipa a un seminario di Taiji si hanno aspettative e una certa apprensione perché si sa che molto di ciò che pensiamo essere stato acquisito fino a quel momento può essere messo in discussione.

Il contatto con tante persone che praticano in altri luoghi durante l’anno, porta un arricchimento sia fisico – per quanto riguarda la pratica – sia emozionale, per lo stretto contatto che si ha con loro e con gli insegnanti che con grande pazienza e dedizione sostengono il gruppo in un tempo concentrato, dal mattino alla sera, in un susseguirsi di scambi, confronti, apprendimenti…

E’ un’esperienza formativa di approfondimento su più livelli:  c’è un intenso e prolungato lavoro di ricerca e raffinamento di ogni singolo movimento all’interno di un quadro di esercizi più o meno noti, studiando sempre meglio allineamento, affondamento, rilasciamento e accuratezza, che sono le basi della pratica, si può arrivare, partendo dai movimenti fisici più esterni, a sentire distintamente il movimento delle articolazioni e le fasi muscolari fino a percepire sensazioni sempre più profonde e sottili, le forze che si muovono all’interno del corpo e forse un accenno di quello che accade prima che le forze si manifestino.

Come riuscire a rilasciare in sequenza creando un’onda? Oppure affondare in modo allineato dalla testa ai piedi o dai piedi alla testa? come arrivare, se fatta tutta la parte precedente correttamente, a sentire le pressioni che si generano? Come esprimere una forza elastica? Come riuscire a sostenere fisicamente, mentalmente e emotivamente le pressioni che gli altri applicano su di noi? O arrivare a gestire forti livelli di stress senza soccombere?

È sorprendente come ogni esercizio possa essere studiato sia dal principiante che da uno studente più avanzato cercando al suo interno cose sempre diverse. Costanza, consapevolezza, presenza e intenzione portano a superare la grande frustrazione iniziale e le rigidità corporee e mentali, permettono lentamente di scoprire sensazioni nuove e neanche immaginabili all’inizio.

È una pratica, in cui ci si immerge, lentamente, anche nelle ore cosiddette libere, e con concentrazione e impegno si penetra nell’essenza dell’esperienza, dove le parole perdono il loro significato superficiale-verbale lasciando quello intrinseco “parlato” dal corpo e da una mente più profonda, più interiore.

E bisogna ammettere che è difficile trasmettere questa “essenza” con le parole.

Heribert Greiner, insieme a Manuela Beillard guidano il seminario intensivo, rispondono a una domanda, sottolineano che “the sensation is important”, ed è uno degli obiettivi del Taiji: ricercare la sensazione, usare il “sentire” invece del “pensare” come “strumento” per interpretare la realtà. È così che diventa più semplice, rilevare come si ritorna bambini, nel tentativo di fare i primi passi per imparare a camminare.

Il seminario di Taiji è anche morbidezza, fluidità… la tecnica, la disciplina sono indicazioni per individuare quei blocchi che non rendono il movimento fluido.

I loosening, per esempio (il cui significato è appunto rilasciamento) sono i cinque esercizi iniziali che aiutano a sciogliere le tensioni – o almeno a individuarle.

“Siate morbidi”, quante volte lo sentiamo ripetere nella nostra pratica insieme.

Impossibile esserlo senza prima imparare a cedere. E così ci si accorge, di quanto ancora si può e si deve cedere. Nel corpo e prima ancora nella e con la mente. Toccare un corpo e non sentire resistenza, ma cedevolezza, non inconsistenza.

O magari c’è chi, fra noi, si è concentrato sul movimento specifico del quinto esercizio per poi trascinare quella analisi in tutta la pratica: la sensazione sembrava ben chiara, l’applicazione di tutti i principi spiegati a lezione sembrava messa in atto, eppure non c’era la possibilità di correggere né mettere a fuoco il problema sentito, in modo da formulare una domanda a parole. Ma ecco che nel corso del seminario viene data una spiegazione (continuare a rilasciare le anche verso il basso intanto che il ginocchio avanza) che riesce dissipare quella specifica nube permettendo di capire meglio il blocco e dando una chiave per lavorarci ancora e provare a correggere.

Diventiamo più consapevoli che comprendere i propri errori non vuol dire averli superati

Mentre si pratica, mentre si scende in profondità si è man mano consapevoli che qualcosa nel modo di fare i loosening è cambiato, qualcosa è cambiato nella forma…qualche millimetro nel movimento di una mano, una spalla che si abbassa in quel preciso momento… piccoli tasselli di un puzzle infinito. Ma c’è qualcosa di più nascosto e di più interessante. Durante il seminario si può magari sentire lo stretching dei quadricipiti femorali mentre si affonda in allineamento; una sensazione fugace e intensissima che fa pensare, sentire, di essere una “molla di acciaio armonico”. E quella sensazione si ricerca ancora e ancora, per settimane, magari anche mentre si fa la doccia e ci si china a prendere il sapone… e talvolta la si ritrova, con gioia.
Ma il dono più grande che ci si porta a casa dopo un seminario il più delle volte non lo si comprende subito. Si sa che qualcosa è successo e ad un certo punto sboccerà.

Durante lo stage c’è lo sforzo nella precisione della spiegazione teorica che viene data in due lingue diverse, accompagnata dalla gestualità come esempio dove serve o dove può essere da completamento. Si aggiunge, naturalmente, l’esempio pratico dell’intero movimento e della sua eventuale applicazione: il movimento del corpo come “punteggiatura” della spiegazione orale.

E praticando, con costanza e concentrazione, si sperimenta che c’è un altro livello di comunicazione, il sentire, che si raffina o che si tenta di raffinare, riuscendo alle volte a percepirsi e percepire anche l’altro, in una modalità in cui il dialogo verbale risulta superfluo.

E via via, ad ogni ora che passa, ci si immerge totalmente nella pratica, lasciando fuori il mondo, per poi tornare al mondo, ma diversi. Nella vita quotidiana si è in balia delle correnti, delle onde e delle burrasche. Il seminario consente di scendere in profondità, scendere nel profondo del mare…

Meno il movimento è grezzo “rumoroso”, più si può sentire altro. Per questo, può succedere che le stesse parole sentite milioni di volte risultino nuove, più comprensibili, persino illuminanti! Ed è proprio a quel punto che si può ascoltare altro: il battito del cuore, le pulsazioni del corpo, la cosa davvero importante per sé in quel momento, percepire nettamente la densità da cui si è circondati.

Mentre si ascolta/percepisce il corpo, contemporaneamente si lavora anche sul livello relazionale ed emotivo e questo permette di vedere parti di noi che non conoscevamo o che forse una parte di noi preferisce non vedere perché non gradevoli.

Perché effettivamente è molto faticoso realizzare di non essere esattamente come crediamo. È più semplice, gratificante e confortante essere convinti di essere una persona costituita solo da qualità positive, invece di vedere come si è veramente. 

È frustrante sapere di avere dei difetti o dei blocchi che spesso non ci permettono di vedere la realtà, di vivere serenamente la nostra vita né tanto meno di crescere. 

Relazionandosi con gli altri nascono delle frizioni che ci mostrano lati caratteriali o comportamentali che ci frenano nella crescita evolutiva, che se osservati profondamente e con umiltà, e pazientemente lavorati ci permettono di crescere e di vivere con più consapevolezza la vita sul piano fisico, emotivo e mentale e di affrontare diversamente anche gli eventi quotidiani.

Un’esperienza intensa che mette a nudo resistenze che si manifestano nel corpo. La volontà trascina le membra, che ogni giorno, sempre più, gioiscono del respiro profondo e che scioglie le tensioni… un bimbo in immersione in un’atmosfera di bene profondo e un mondo di relazioni che si intrecciano, mostrando dei lati nuovi, che non sempre si è pronti a cogliere, accettare, modellare. Un ricordo che fatica a tradursi in parole che necessitano di “affondare nelle fibre della memoria” per essere rammentate e, così, infine, raccontate.

Il ruolo del maestro è di fondamentale importanza perché oltre ad essere un grande esempio, indica il percorso, ci mostra ciò che ancora noi non riusciamo a vedere e ci accompagna con pazienza e amorevole dedizione lungo il cammino.

E poi il gruppo dà la forza, lo sforzo che tutti mettono per arrivare all’obiettivo comune dà maggiore intensità al lavoro e permette a ciascuno di fare passi da gigante.

È una grande via di ricerca e di crescita personale, non facile sicuramente perché richiede un forte impegno, il “retto sforzo”, e perché bisogna investire tanto nella perdita, nel lasciare andare, nell’abbandonarsi fiduciosi per poter vedere dei risultati, che certamente nel tempo affiorano, o meglio si fanno trovare…

Il seminario, è un momento-tempo-spazio, in cui si semina qualcosa. Come in agricoltura, in questa fase, c’ è una grande speranza e fiducia che da quel seme nascerà una pianta che darà frutti. Può essere un’intenzione di presenza e di ascolto. Presenza: difficile esercizio per una mente ballerina, e ascolto di sensazioni del corpo durante l’allenamento, rigido, pigro, indisciplinato ma dopo le prime ore più collaborativo, morbido e fluido, e ascolto delle emozioni mentre emergono nella vita di relazione, che il quotidiano regala sempre.

I due insegnanti sempre presenti e il gruppo particolarmente fraterno, sono di sostegno continuo nel mantenere stabili le proprie intenzioni. Forse anche per questo nasce una forma di gratitudine spontanea. Si torna a casa come dopo un ritiro spirituale, più energici, più centrati. Come nella natura, però, ciò che di più interno accade con il Taiji, lo si conosce, o ri-conosce, più avanti nel tempo. Se si persevera, applicando gli insegnamenti e le preziose correzioni ricevute, si lavora con il retto sforzo, e si praticano, come il seme richiede, costanti cure, allora è certo che si vedrà germogliare qualcosa.

 

Concentrazione, ricerca, mente che cala nelle profondità, ascolto dell’altro e del sé.

Non arriva per caso, è una scelta, in cui il campo, composto da altri ricercatori, si fa più denso, spesso, magnetico. E si va avanti, consapevoli che non c’è una fine, un obiettivo da raggiungere, che il lavoro è la ricerca interiore e la ricerca interiore è il lavoro, un ciclo.

 

Il campo crea coesione, fratellanza: lavorare insieme, nei loosening, nella forma, nei tui shou, nella meditazione, passa attraverso i sorrisi, la discussione, una sana risata, i ricordi di come si era e di dove si è arrivati. E la guida ci prende per mano aiutandoci a non cadere, o spingendoci un po’ più in là, se il momento, quello giusto, è arrivato.

 

C’è un tempo per ogni cosa, c’è un tempo per il Taiji, infinito.

Manuela Beillard – Insegnante di Taiji della Scuola Tian Dao metodo Patrick Kelly

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